Il Museo Archeologico di Castellammare di Stabia, inaugurato di recente (24 settembre 2020), è nato dallo spostamento del precedente Antiquarium stabiano, allestito nei locali seminterrati e indubbiamente inadeguati della Scuola media Plinio il Vecchio, in pieno centro cittadino, da Libero D’Orsi (1888-1977), che ne è stato a lungo preside. Era chiuso al pubblico dal 1997.
Il nuovo Museo intitolato proprio al D’Orsi, che negli anni ’50 e fino al 1962, organizzò lo scavo delle Ville Stabiane, già parzialmente indagate in età borbonica, dipende dal Parco Archeologico di Pompei. Occupa gli storici ambienti della Reggia di Quisisana,il più antico sito reale borbonico, uno splendido edificio dove l’esposizione dei reperti provenienti dalla sopra citata scuola, si arricchisce di elementi importanti e suggestivi: affreschi, pavimenti, stucchi, sculture, vasellame da mensa e oggetti metallici (bronzo e ferro) provenienti dalle ville romane di Arianna, di San Marco, del Pastore, del cosiddetto Secondo Complesso, poste sulle vicine colline in posizione panoramica sul Golfo di Napoli, nonché da alcune delle ville rustiche del territorio.
Il Museo si propone di offrire un quadro complessivo dell’antica Stabiaee dell’Ager Stabianus dall’età arcaica sino all’eruzione del 79 d.C. Per ora, le prime sale sono dedicate alla storia della Reggia di Quisisana, complesso architettonico risalente al XIII secolo, anche se la costruzione è comunque antecedente al 1280 (come risulta da documenti attribuiti a Carlo I d’Angiò e a Giovanni Boccaccio – VI novella del X giorno nel Decameron).
Fu edificato dai sovrani angioini come luogo di villeggiatura e di cura (sfruttando le vicine acque termali), nonché l’amenità del luogo. L’aspetto attuale della struttura risale però al periodo di Carlo III di Borbone (tra il 1765 e il 1790). La fabbrica è stata concepita come un “palazzo di caccia e villeggiatura”. Poteva anche godere di un agevole collegamento con Castellammare di Stabia. E’ soltanto nel 1758, sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone, che iniziarono lavori di restauro e di ampliamento che trasformarono il complesso in un’unica grande struttura a forma di una “L”. Più tardi, Ferdinando II delle Due Sicilie (1830-1859) fece altri cambiamenti tra cui la costruzione del grande terrazzo. La Reggia possedeva in quel tempo 49.000 metri quadrati di struttura abitabile, su due livelli, disponendo di circa cento stanze, due terrazze e una cappella. La fama della Reggia era tale da attrarre moltissimi viaggiatori italiani e stranieri e numerosi artisti. Le loro opere (acquerelli, gouaches e incisioni di Hackert e Dahl nonché vedute della Scuola di Posilippo) testimoniano della sua bellezza. Dopo un lungo periodo di abbandono, il palazzo è stato oggetto (inizio 2000) di un importante intervento di restauro, terminato nel 2009, che ha permesso di restituirlo al suo antico splendore.
Il parco che lo circonda è un bosco ricco di molte varietà di piante (platani, ippocastani, castagni, carpini, olmi e lecci, ecc) ed è stato arricchito nel tempo da alcuni alberi monumentali tra cui un pino d’Aleppo dalla notevole circonferenza (4,95 metri), ma anche da nespoli del Giappone, da palme delle Canarie, da eucalipti, da pini marittimi e da cipressi. Splendide sono anche le camelie e le magnolie. Il Parco, attualmente non visitabile, è di proprietà del Comune di Castellammare di Stabia; le funzioni di tutela sono di competenza del Parco Archeologico di Pompei.
Il percorso di visita all’interno del Museo continua con la storia delle ricerche archeologiche: dagli scavi borbonici a quelli condotti da Libero D’Orsi. Le sale susseguenti sono consacrate alla Stabiae preromana di cui, però, si ignora l’esatta ubicazione anche se è probabile che sia da posizionare sul pianoro di Varano. Appare dunque fondamentale la documentazione della vastissima necropoli scoperta nel 1957 in località Madonna delle Grazie, costituita da quasi 300 tombe che coprono un arco cronologico che va dalla seconda metà del VII a. C. al III sec. a.C. Lo sviluppo di questo primo insediamento stabiano va messo in relazione con uno scalo commerciale dove la presenza di una comunità mista di etruscofoni e di gruppi indigeni con lingua paleoitalica è ben documentata. Infatti dalla necropoli di Madonna delle Grazie proviene una kylix a vernice nera da una tomba degli inizi del V sec. a. C. (470-460 a.C.), con un’iscrizione di appartenenza in alfabeto etrusco ma in lingua paleosannitica ahtika(s) sum: sono di Athica che attesta la presenza anche di una componente italica. Sempre dalla stessa necropoli proviene una scodella in bucchero pesante locale della fine del VI sec. a.C – inizi del V sec. a.C con iscrizione in lingua ed alfabeto etrusco muses e un’altra con iscrizione pacieis paciieis, anch’essa in alfabeto etrusco ma in lingua italica. Dalla metà del V sec. a. C. la contrazione del numero delle tombe nella necropoli sembra suggerire l’esistenza di un periodo di crisi forse da mettere in relazione con lo sviluppo di Pompei, che si pone come antagonista con l’insediamento stabiano nella funzione di scalo commerciale, monopolizzando i rapporti con l’entroterra. Dall’età tardo-repubblicana il pianoro di Varano conosce un notevole sviluppo dell’edilizia privata, con le cosiddette ville d’otium, chevede la costruzione anche di rampe e di gallerie per mettere in comunicazione le lussuose ville con il litorale.
Il periodo romano, fino all’eruzione del 79 d.C. che distrusse le ville e causò proprio sulla spiaggia di Stabiae la morte di Plinio il Vecchio, è illustrato secondo un criterio espositivo cronologico e topografico, con alcuni approfondimenti tematici. Il percorso inizia con Villa San Marco, una delle più grandi ville residenziali di Stabiae (superficie di 11.000 mq). Fu la prima ad essere esplorata in epoca borbonica (1750-1754) e quindi spogliata dei sui affreschi e della suppellettile. Nuovamente seppellita dopo essere stata documentata e rilevata dall’ Ing. Carlo Weber, fu riscavata parzialmente dal D’Orsi. L’itinerario prosegue con la villa Arianna, cosi chiamata dall’ affresco che decorava uno dei triclini. È la più antica delle ville finora esplorate sulla collina di Varano e anch’essa messa in luce quasi interamente (su una superficie di 14.000 mq) dagli scavi condotti dall’ ing. Carlo Weber, una volta documentata fu rinterrata. Tuttavia fu riportata in luce in più interventi a partire dal 1950 da L. D’ Orsi. Il carro in bronzo ivi rinvenuto, esposto nelle sale del museo qui descritto per la prima volta, è lo spunto per approfondire le conoscenze dei lavori agricoli e delle produzioni tipiche del territorio stabiano: attività produttive testimoniate anche dagli attrezzi, dalle anfore e dai larari trovati nelle ville e negli ambienti rustici. È illustrata anche la Villa detta Secondo Complesso, adiacente a Villa Arianna. Era stata già parzialmente esplorata in epoca borbonica, prima di essere indagata di nuovo negli anni ‘1950 dalla Soprintendenza archeologica di Napoli.
A pochi metri a S-E del Secondo Complesso, verosimilmente in antico contiguo ad esso, vi è la villa detta del Pastore esplorata tra il 1967 e il 1968. Si estende su 18.000mq. Già parzialmente interessata da scavi in epoca borbonica, è stata indagata e reinterrata negli anni ’70 in attesa del completamento delle pratiche di esproprio. Durante gli scavi moderni si è rinvenuto una statua in marmo raffigurante un anziano pastore, da cui il nome dato alla villa. Come altre ville del pianoro si articolava su tre livelli degradanti da S a N e verosimilmente si collegava attraverso rampe alla zona ai piedi della collina. Dopo la parte dell’esposizione dedicata al pianoro di Varano, si può ammirare parte degli affreschi della villa del Petraro (comune di Santa Maria la Carità), importante complesso con lussuosi ambienti termali messo in luce nel 1957. Al momento dell’eruzione, la villa era in fase di ristrutturazione, forse a causa del il terremoto del 62 d.C. Occupava circa 1000 mq. Fu reinterrata nel 1958. La villa rustica in località Carmiano (comune di Gragnano) occupa un posto importante nell’allestimento permanente del Museo. Fu scoperta nel 1963 ed è stata scavata quasi integralmente, ma è stata recentemente interrata. È una delle circa 50 ville rustiche dell’ager Stabianus che erano dedicate alla coltivazione della vite e dell’olivo. Le pareti affrescate di una delle sale da banchetto di questa villa (triclinio n. 3) sono integralmente riproposte al centro del percorso: le pitture di tema dionisiaco richiamano la produzione del vino, attività principale svolta negli ambienti della parte rustica della residenza. È l’occasione per soffermarsi con un approfondimento tematico dedicato all’alimentazione sul cibo, sulla sua preparazione e sulla consumazione, ma anche sul vasellame da mensa in bronzo, in terracotta e in vetro e sul vasellame da cucina. È previsto un ampliamento del percorso espositivo, all’interno del quale sarà finalmente possibile visitare la rampa riccamente decorata che collega il peristilio inferiore con quello superiore di Villa S. Marco, consentendone la fruizione al pubblico.
Claude Albore Livadie
Bibliografia
AA.VV. (2001). In Stabiano, Cultura e Archeologia da Stabiae: la città e il territorio tra l’età arcaica e l’età romana, Catalogo della mostra, Castellammare di Stabia, Nicola Longobardi Editore, 2001.
BONIFACIO G., SODO A.M. (2001). Stabiae. Guida turistica alle Ville, Castellammare di Stabia, Nicola Longobardi Editore, 2001.
CAMARDO D., FERRARA A. (2001). Stabiae. Dai Borboni alle ultime scoperte, Castellammare di Stabia, Nicola Longobardi Editore, 2001.